mercoledì 11 gennaio 2017

Eugenio Buzánszky e Giulio Grosics

Vi posso assicurare che scrivere di quello di cui leggerete più sotto è stato difficile quasi come raccontare << [...] una tempesta sull'isola >>, cioè di una tempesta spaventosa, in un lontano mare caraibico. Mi ha tolto il sonno.
<< Ricordo molto bene quel giorno [...] Mio Dio, che meravigliosa mattina [...] C'era una discussione circa una tempesta sull'isola >>, di quelle che sballottano << [...] le navi da lato a lato >> e che inzuppano le ossa di terrore. << Era il 1929 / Ricordo molto bene quel giorno [...] Mio Dio, c'erano trentatrè anime in acqua >>, si intona in un canto americano, "Corri, vieni a vedere Gerusalemme".
Ecco: ciò che ho composto riguarda anime costrette a perdersi. Ma, anche se è ovvio che le vicende che andrò a narrare, non quelle sull'uragano e sui Caraibi bensì quelle che hanno a che fare con Eugenio Buzánszky, Giulio Grosics e la squadra per cui giocarono, c'entrino davvero poco con la stessa tempesta che trascinò quelle navi nell'oceano, potete stare certi che è stato davvero arduo provarle a narrare.
Nonostante in entrambe le vicende sopra uomini sia stata usata forza, da parte della Natura o di altri uomini, per sprofondarli nell'angoscia, scrivere e cantare della tempesta del '29 e delle trentatrè persone forzate ad andare, prima del tempo, incontro al loro giudizio è diverso dallo scrivere di questa squadra di calcio, tra l'altro è meno difficoltoso, anche perchè la squadra si può considerare nata nel 1950 ed al Mondiale si va in ventitrè.

Il già citato Eugenio Buzánszky fu un calciatore ungherese. Terzino destro, fece parte dell'Aranycsapat, la "Squadra d'oro", cioè quella formazione magiara che in quattro anni, dal 1950 al 1954, giocò 33 partite di fila senza mai perderne una e che trovò disfatta alla 34°, la finale del Mondiale di calcio svizzero del '54, inflittagli dalla Germania Ovest. Un "miracolo" la vittoria dei tedeschi. L'Ungheria della prima metà degli anni '50, del resto, era uno squadrone: guidata dal commissario tecnico Gustavo Sebes, produceva una quantità di gioco impressionante, sempre palla a terra. Un calcio "socialista" fu definito quello giocato dalla comunista Repubblica Popolare Ungherese: tanta coesione del gruppo e della squadra, testimoniata dalle fitte serie di passaggi ravvicinati tra compagni. Poi, pochi i lanci lunghi; molti, invece, i cross delle ali per Alessandro Kocsis, la "testa d'oro": << Non c'è mai stato nessuno migliore di lui con la testa >> affermò, tra gli altri, mister Sebes. Addirittura, come sostenne Eduardo Galeano, ne il suo "Splendori e miserie del gioco del calcio", << Dicono che Kocsis sia stato la miglior testa d'Europa dopo Churchill >>. Per Alessandro, "Sándor" in ungherese, 11 goal alla Coppa del Mondo, una valanga: era, però, sicuramente un altro calcio, nel quale l'attenzione si posava più sull'attacco che sulla difesa. Compagni di Eugenio Buzánszky erano, poi, anche Francesco Puskás, stella di primissimo valore della nazionale e di un Real Madrid leggendario, Ferdinando Hidegkuti, primo protagonista di quella rivoluzione tattica, pensata dal mister, che diede man forte all'Ungheria nel vincere praticamente trenta partite di file ed a giocarsi la finale del Mondiale, e Giulio Grosics, il portiere della mitica formazione, l'epopea e la vita sportiva del quale sono raccontati più sotto.

La squadra era, poi, composta da: Giulio Lóránt, prestante terzino sinistro; il centrale di difesa Michele Lantos; Giuseppe Bozsik, ritenuto uno dei più forti mediani di sempre; il mediano tutto-polmoni Giuseppe Zakariás; Basileo Czibor, talentuosissima ala sinistra; e la scattante ala destra Ladislao Budai. Questi i titolarissimi.

Eugenio Buzánszky, l'ultimo superstite di quella formazione sfortunata e leggendaria, è morto proprio l'11 gennaio di due anni fa, il 2015, all'età di 89 anni. Certo, è passato del tempo da quel gennaio: nel frattempo l'Ungheria ha disputato un coraggioso Europeo, di grande corsa e tante manovre offensive. Ha molto impressionato un ragazzo, Adamo Nagy, regista intelligente dal moto facile e spigliato, le gesta del quale stiamo ammirando a Bologna. Poi, Gabriele Király, il portiere, "quello colla tuta", ha superato il record di presenze in nazionale dello stesso Bozsik: lo ricordate Bozsik, no? Il mediano della "Squadra d'oro", cosiderato uno dei più forti di tutti i tempi. Tuttavia, dato che l'Ungheria calcistica, dopo 44 anni di astinenza dalle fasi finali delle grandi competizioni calcistiche europee e mondiali, s'è fatta da molti conoscere per la prima volta, è sembrato opportuno, in occasione della ricorrenza della sua dipartita, richiamare alla memoria Eugenio Buzánszky e la sua favolosa squadra, in modo tale che chi conosca il vertice del movimento calcistico magiaro, per via di Euro 2016, solamente da poco tempo, possa meglio approfondire la conoscenza di tale movimento, attraverso quello che probabilmente è l'evento più importante della sua storia.
Ad ogni modo: Eugenio Buzánszky era terzino destro. Non era una stella. L'ho visto giocare solo una volta, su YouTube, con la sua Ungheria contro i Leoni d'Inghilterra, nella maggiore chiesa del calcio, il vecchio Wembley, in un tempo, il 1953, nel quale tornare vittoriosi dall'altra parte della Manica era praticamente impossibile: i Leoni inglesi, prima di quella partita, in ottantuno anni, avevano perso una sola volta in patria. I magiari si presentarono all'invito degl'inglesi a giocare un'amichevole con al collo una metaforica medaglia d'oro, quella conquistata l'anno precendente, quando il mondo si riunì ad Helsinki per giocarsi le Olimpiadi. La Nazionale maggiore ungherese e quella Olimpica erano pressochè le stesse, dato che i calciatori magiari, tutti dilettanti, erano passibili di essere arruolati anche per i Giochi. Quindi, altro che amichevole Inghilterra-Ungheria. In pratica, da sempre, gli inglesi hanno sfidato i detentori di titoli, Mondiali od Olimpiadi che siano, con il fine di "soffiarglieli": un po' come nella boxe, no? Vale a dire che chi vince contro il campione è il nuovo di campione. L'avevano fatto pure con noi italiani, nel 1934, aspettandoci al varco ad Highbury e dandoci battaglia durissima. In ogni caso, Inghilterra - Ungheria, se la si vuol mettere così, valeva l'oro olimpico. L'incontro era programmata per il 25 novembre, nel freddo autunno inglese che tanto rende l'erba viscida: Buzánszky gioca, tutto sommato, una buona partita. Nonostante sia il difensore che più spinge, è forse il meno forte del suo reparto, tuttavia è ordinato ed attento, almeno per quanto potesse essere ordinato ed attento un difensore dell'immediato secondo dopoguerra: viene saltato una volta, si addormenta con tutti i compagni di reparto in occasione del primo goal inglese, su palla alta s'addormenta un'altra volta, ed infine è complice poco colpevole dell'errore, in uscita, del portiere Grosics. La partita finisce 6 a 3 per i magiari. Gli ungheresi hanno tirato in porta trentacinque volte; gli inglesi, che non sono quelli che oggi volano in continenti lontani per giocare Mondiali nei quali faranno ridere, hanno tirato solamente cinque volte. È fatta, dopo tre anni di vittorie, l'Ungheria è la nuova superpotenza del calcio mondiale. In una partita da leggenda, sono battuti gli inventori del football, e pure in terra d'Albione. << Non erano passati 45'', ed il pallone già s'insaccava nella porta inglese, imparabile. I nervi si spezzarono come vetro.
Ma l'eco che rimbombò nello stadio fu cupa e lunga: il primo pezzo dell'invincibile, ormai secolare mito del calcio inglese era crollato. [...] ho sentito, forse contagiato dall'intuizione collettiva di centomila cervelli, che la storia del calcio era ormai giunta ad una svolta. [...]
Non servirà più calcolare quanto sia largo, nel punteggio e nella classe, lo scarto che separa le due squadre, tener conto dei goals degli uni e degli altri: i dadi sono tratti. La battaglia ha ormai un vincitore indiscutibile >> scrisse Luca Trevisani, per l'Unità. I magiari giocano ad un'altra velocità, di gambe e di pensiero; possente il ritmo. Insomma: è l'apoteosi di quella rivoluzione calcistica tutta offensiva che anticipa ed ispira il 4-2-4 brasiliano di Svezia '58 e Cile '62.
Ed in un contesto calcistico nel quale si marcava ad uomo, questa rivoluzione ungherese consisteva più tecnicamente nel far indietreggiare i tre attaccanti a centrocampo, risucchiando i tre difensori avversari in una zona che non competeva loro, e nel far avanzare le due mezze ali, che costringevano i mediani rivali, che li sorvegliavano, ad indietreggiare in difesa. Gli avversari, marcando i "mitici magiari", li inseguivano per il campo disorientati. E, come dicevo, il protagonista assoluto di questa rivoluzione fu Ferdinando Hidegkuti, centravanti di manovra: sì, perchè teoricamente partiva al centro dell'attacco, ma arretrava a centrocampo e si portava dietro il centrale di difesa avversario. Nello spazio creato si inserivano quelle che in teoria erano le mezz'ali, Kocsis ed il colonnello Puskás, questo era il grado che, senza mai toccare un'arma, si guadagnò in un'Ungheria dove calcio e politica erano particolarmente commistionati.
L'Ungheria accende e spegne il gioco quando ritiene sia opportuno farlo, a suo piacimento. A momenti di compassato palleggio si avvicendano lampi acuti, che si traducono in attacchi massicci ed impetuosi. Innocuo palleggio ed improvvise accelerate sono alternati, come le stagioni si alternano da quando Plutone si mise d'accordo con Cerere sulla libertà di Proserpina, rapita sul lago di Pergusa: nel periodo del gioco in cui l'Ungheria accelera, cade l'inverno sopra gli avversari. È un modulo, quello magiaro, creato con lucidità, dall'allenatore Sebes, con il fine di sovrastare il sistema, cioè quel module principe in Inghilterra da trent'anni (vale a dire 3-2-2-3: tre difensori, due mediani, due mezz'ali, tre attaccanti) e principe dei moduli, in Europa, da una decina. L'Ungheria fa un passo in avanti e rivoluziona il pallone in modo indimenticabile, resta scolpito nel cervello di tutti. E meno male per gli avversari che Ladislao Kubala, centrocampista dalla classe infinita, dicono tra le migliori di tutti i tempi, non possa giocare tra le fila ungheresi, vista la squalifica inflittagli a seguito della sua fuga dal paese, in cerca di diverse libertà.

Poi, archiviato il 6 a 3 agli inglesi, c'è il Mondiale, il luogo nel quale, dopo aver vinto l'oro alle Olimpiadi, consacrarsi definitivamente. Passato il girone eliminatorio, l'Aranycsapat, la mitica Ungheria, fa fuori, in una partita violentissima (testimonia Vittorio Pozzo, inviato da La Stampa) il fortissimo Brasile e successivamente elimina i campioni in carica dell'Uruguay. Nel primo incontro, quello giocato contro i brasiliani, tre in totale furono gli espulsi: uno per i magiari, vale a dire Bozsik, primo deputato di un Parlamento a venire espulso ad un Mondiale; poi, a fine partita, con bottiglie rotte sulle teste, diventante sanguinanti, di calciatori e dirigenti continua la guerra combattuta in campo. La seconda partita, intendo dire la semifinale contro gli uruguagi, è altro rispetto a questo scritto, nel senso che fa storia a sè, com'è raccontata da Gianni Brera, perciò non spenderò sopra essa alcun'altra parola. Così, la finale si gioca sul pesante campo dello stadio Wankdorf di Berna, davanti a 60.000 spettatori: è Germania Ovest-Ungheria. Le due formazioni partono a spron battuto: dopo 20 minuti, si è sul 2-2. Tanta la mole di gioco prodotta durante la partita dai magiari, tante le occasioni costruite. Ma, a pochi minuti dalla fine, segna la Germania. Gli ultimi istanti sono, per gli ungheresi, di agonia, nel tentativo disperato di trovare il pareggio. La Squadra d'oro non entra nell'Olimpo del calcio. Si parlò di tedeschi dopati (cinque di loro, il giorno seguente, finirono in ospedale per un'itterizia infettiva), di arbitraggio a sfavore dei magiari, di vittoria della capitalista Germania Ovest sulla comunista Ungheria, di vittoria fondamentale per i tedeschi in un durissimo secondo dopoguerra. La Squadra d'oro, questa squadra che gioca un calcio-così-bello-che-non-si-è-mai-visto, entra però nell'immaginario di tutti. La favola vera e propria, tuttavia, finisce proprio quel giorno. Poi, nel '56, con la Rivoluzione Ungherese, la mazzata decisiva: molti calciatori della nazionale, nei giorni della lotta del popolo magiaro contro i comunisti di Russia ed Ungheria, sono a giocare delle partite all'estero. Decidono di non tornare. Fuggono. Se Hunor e Magor, i padri degli unni e dei magiari, inseguendo un cervo bianco, iniziarono quella storia di emigrazione dei loro popoli verso l'attuale Ungheria, alcuni calciatori dell'Aranycsapat si spinsero oltre, fino ini Spagna: Puskás giocherà a Madrid, Kocsis e Czibor al Barcellona. La squadra si spacca, o meglio, cessa di esistere.
Prima di accasarsi in Spagna, i nostri trovarono temporaneo rifugio in Italia, vista la vicinanza geografica e spirituale che lega questa coll'Ungheria. Tra le stesse scorre, come sostiene La settimana Incom del 13 dicembre '56, << [...] quell'amicizia che nell'ore dure sa temprarsi alla fiamma del dolore >>.

Ora, Giulio Grosics, il portiere, ha << sempre fatto il tifo per il Ferencvaros. Anche da bambino. Prima ancora di sapere che fosse la squadra della destra nazionalista >> scrive Angelo Carotenuto, che racconta la vita del calciatore nel suo blog, "Il Puliciclone", curato per La Repubblica. Giulio è un noto anti-comunista: da giovane, negli anni tra le due guerre, nell'Ungheria governata dall'ammiraglio Horthy, quella dei privilegi della vecchia e ricca aristocrazia e delle leggi che discriminano gli ebrei, insomma: di un muro di disuguaglianze alzate tra le persone, è membro di un'organizzazione paramilitare voluta dal Governo, Levente. Alla minoranza ebraica, che deteneva un quarto della ricchezza nazionale, venne limitato, attraverso il diritto, l'accesso all'università ed a determinate professioni intellettuali. In 430.000 furono gli ebrei che, sotto il governo Horthy-Kállay ed in forza di pressioni naziste, furono uccisi. Infatti, dopo il primo conflitto mondiale, italiani ed ungheresi, nel mezzo delle rovine, vissero le medesime emozioni, le stesse paure: le menti di molti furono attanagliate dal terrore per un futuro che si prospettava da miseria, da quel bisogno di sicurezza, e quindi di una vita meno affannosa, che è stato cavalcato da certe guide con il fine di eliminare e svilire determinate persone, racchiuse in categorie. Comunisti, zingari, ebrei ed omosessuali, considerati i nemici della patria, furono posti in uno stato di minorità, vale a dire in uno stato che permettesse al cosiddetto normale uomo magiaro ed italiano di poterli discriminare ed eliminare senza provare alcun rimorso. A detta di queste guide, infatti, era a causa degli esseri umani di cui sopra che il futuro era incerto, cosicchè gli ungheresi e gli italiani persuasi di quest'idea, spaventati dalla mancanza di sicurezza, dalla povertà, non ci misero niente a mobilitarsi con il fine di usare violenza sopra queste persone. Nessun sentimento di colpa. Pare che nell'essere umano, quando si trova affamato e spaventato, scatti un moto che lo porta ad uccidere, senza porsi problemi di coscienza, coloro che hanno generato questo stato di affanni e di difficoltà, od i presunti genitori di tale stato di cose; e questi immaginari rei di aver creato stenti e fame capita spesso li indichino certe guide. Ecco: sembra che il portiere dell''Aranycsapat Giulio Grosics, che, come avete ben presente, faceva parte di Levente, vale a dire la milizia che abusava della sua forza a discapito di determinate minoranze, sia stato uno di quelli terrorizzati: pare che la sua mente partorì l'idea che certi soprusi e certi delitti sono giustificabili. E sembra anche che il mondo nuovo sia uguale a quello vecchio, perchè delle guide di cui ho fatto cenno ne nascono sempre, Orbán come Horthy, quando le crisi economiche ci affamano ed il mondo comincia a tremare di paura. Giulio Grosics, del resto, era colui che, per lunghi periodi della sua vita, vale a dire molti di quelli vissuti con il pallone sulla bagnata e pesante erba, accarezzato e trattato a piacimento dagli undici "mitici magiari", viveva con grande coraggio, essendo stato uno dei primi portieri a difendere la propria porta uscendo dall'area di rigore, ma era anche colui che, in alcuni momenti, veniva bloccato dallo sgomento: << A nove minuti dalla fine >> di quel leggendario 3 a 6 rifilato agli inglesi << mi crebbe una palla in gola, spuntò all'improvviso, io la sentii gonfiarsi e mangiarmi il fiato. Si piantò al centro del petto, alla bocca dello stomaco, spingeva contro il mediastino, stavo per impazzire. Chiesi all'arbitro di uscire dal campo, volevo solo tornarmene al più presto in panchina. Era un attacco di panico. Uguale a quelli che di tanto in tanto mi prendevano in allenamento, quando ero convinto che una grave malattia stesse aggredendo il mio cervello: per questo portavo un berretto rosso, mi faceva bene, ne ero certo, ne ero certissimo >>, scrive Angelo Carotenuto, immedesimandosi, sulla base di un fatto vero, nel nostro.
Ad ogni modo, nell'angosciosa situazione di cui parlavo sopra, cioè la situazione che si venne a creare dopo la Grande Guerra, con fermenti nazionalistici ad imperversare tra la gente, Italia ed Ungheria arrivarono a trovarsi dopo aver combattuto nel medesimo conflitto, l'Italia da nazione indipendente, l'Ungheria sotto la bandiera dell'impero austriaco: successe infatti che l'Italia, che già dagli stessi austriaci s'era liberata, nel mentre che viveva anni miseri, scivolò piano piano in una povera guerra, la Prima Guerra Mondiale, trovandosi a combattere anche i magiari poveretti, bramanti da tempo quell'indipendenza ottenuta, dopo Vittorio Veneto, per mezzo di una rivoluzione. Ed in quel tempo di bramosia d'indipendenza: italiani ed ungheresi combatterono a fianco, i secondi in aiuto dei primi, guidati dall'ufficiale della Honvèd, la fanteria magiara, Luigi Tüköry, morto combattente nella mia città, Palermo, al civico 49 di via del bosco, nel quale, commemora una targa, << A la pietà e a la storia [...] Tomaso Oneto di S. Lorenzo questo suo palagio consacrò fraternamente accogliendo i feriti ne l'epica pugna. È qui de la schiera de' mille moriron fra gli altri Luigi Tüköry [...] >>, per via di un ginocchio spappolatogli da un colpo di fucile, presso porta Termini. Ed in quel tempo di bramosia d'indipendenza magiara: e verso la fine di quel tempo, nel 1910, Ungheria ed Italia ribadirono la loro fratellanza, scontrandosi a Milano in un'amichevole tra le rispettive compagini calcistiche, di << [...] questo nobile e battagliero sport atletico >>, vinta dai magiari con goal del fortissimo Emerico Schlosser, per via di << Un nostro calciatore >> che << riprende alla partita, sdrucciola >>, per via del fatto che aveva nevicato, << cade e tocca malauguratamente il pallone colla mano: ciò avviene a meno di un metro dalla linea di rigore e l'arbitro concede un calcio di punzione. Il tiro ungherese è preciso e la palla entra in porta [...] >>, ciononostante l'Italia abbia giocato una signora partita, a dispetto della strapotenza calcistica dell'avversario, corazzata del calcio dei pionieri, ricorda un giornalista de La Stampa del quale non sono riuscito a reperire il nome; del resto, l'autorevole Ungheria del calcio avanguardista arrivò alla finale mondiale del '38, contesa agli stessi azzurri, e secondo alcuni avrebbe potuto vincere i Mondiali del '42, del '46 e del '50, se a quelli brasiliani avesse partecipato. Così, dopo che gli ungheresi soccorsero gli italiani nella lotta per l'indipendenza dei secondi, e dopo che i magiari stessi la ottennero per indiretto intervento italiano, le guide della nazione generatisi, voglio dire quelle generatisi due anni dopo la fine della Grande Guerra, con a capo l'ammiraglio Horthy, amico di Mussolini, degli italiani, e vincitore sui comunisti l'anno prima, imposero tra l'altro, in un clima come quello sopra descritto, la "magiarizzazione" degli ebrei, cioè questi furono pressati affinchè abbracciassero ancor più la cultura ungherese; così come lo furono tutti gli altri popoli, in particolare danubiani, che trovarono culla in Ungheria: intendo dire gli slovacchi, i romeni, gli svevi, i cechi, i serbi, i tedeschi ed i croati. I nostri Kocsis ed Hidegkuti portarono nomi magiari proprio perchè i padri, di origine tedesca, dovettero cambiare cognome. Lo stesso Puskás aveva origini teutoniche. Nella Seconda Guerra Mondiale, poi, il portiere, Giulio Grosics combatte, contro i comunisti, in seguito vincitori, volontario nelle SS. Casa sua diventa un arsenale per i ribelli del 1956. I servizi segreti sovietici lo hanno sorvegliato, sostenne lui, da dopo il Mondiale; da quel momento, ogni settimana veniva prelevato da una macchina nera del governo rosso e puntualmente interrogato. Sì, la rovina in finale contro i tedeschi ha causato baraonda in Ungheria: << A Budapest la gente quel giorno era in strada per festeggiare, l'attesa si trasformò in protesta. La [...] sconfitta c'entrava e non c'entrava, la folla cominciò a prendersela con il governo. Il Partito >> Comunista << reagì malissimo >>, scrive sempre Carotenuto. Fu a partire da quel momento che, sostenne Giulio Grosics, lo stesso Giulio fu tenuto d'occhio dal governo.

Il 23 ottobre del 1956, infatti, sull'onda degli scioperi degli operai polacchi, finiti con attacchi alle sedi del Partito Comunista, 300.000 ungheresi scendono in piazza a Budapest: protestano perchè mancano i beni di consumo, non c'è nè libertà d'espressione nè di stampa, tutto è in mano all'unico partito. Tra le altre cose, anche un club calcistico, vale a dire il Kispest, rappresentante l'ononimo quartiere di Budapest, era diventato cosa pubblica, visto che cadde sotto l'amministrazione di quelli della Difesa. Infatti, il club cambiò il suo nome in "Honvéd", come la fanteria di Luigi Tüköry, ed in esso confluirono, quasi con decreto, praticamente tutti i campioni ungheresi, diventati ufficiali dell'esercito. Mentre il popolo magiaro chiede a gran voce che all'Ungheria << [...] vengano restituite la dignità di nazione e l'indipendenza >> (così rende conto La settimana Incom del 9 novembre), la Honvèd, intendo la squadra di calcio, si trova all'estero per una tournèe: un paio di giorni prima della Rivoluzione, s'era imposta per due reti ad una sui concittadini del Vasas, ed apprestandosi a vincere il campionato, partì per preparare l'incontro valevole per il primo turno di Coppa Campioni, con avversario l'Athletic Bilbao, ironia, la squadra della sinistra basca: così è possibile, per i suoi calciatori, la rotta verso luoghi nei quali siano riconosciute più libertà, o, come nel caso della Spagna franchista, località dove vi siano, quantomeno e diversamente dalla comunista Ungheria, più beni di consumo. Tant'è che, a loro volta, una ventina d'anni prima, vari calciatori, tra cui Isidoro Lángara, ariete del Real Oviedo, dalla Spagna del generale Franco erano scappati: evidentemente non bastava loro più ricchezza in cambio di certe libertà. Del resto, in un regime comunista, il luogo nel quale il lavoratore sfruttato si emancipa, non c'è bisogno di chissà quale produzione di beni di consumo: il lavoratore non avrà bisogno di tutti questi beni: l'economia non può reggere all'infinito sul loro eccesivo consumo, al contrario di come la pensano i padroni delle fabbriche, che sul vendere infinite quantità di oggetti e di alimenti, lavorati non dagli stessi ricchi padroni ma dai contadini e dagli operai, fanno la loro ricchezza e, di riflesso, la povertà altrui. Poi, in un regime comunista, non c'è bisogno della libertà di espressione e di stampa: quale dissenso avrebbero da esprimere i lavoratori se, appropriandosi veramente del frutto delle loro fatiche, vivranno felici e padroni di loro stessi? E poi, la libertà di stampa e di espressione la userebbero i borghesi, i ricchi, cioè gli unici che hanno i soldi per possedere un giornale, che da sempre, negli stessi, storpiano la verità a loro vantaggio; non ci metterebbero niente a rovesciare il comunismo, che fa giustizia sostanziale, così come hanno rovesciato gli aristocratici nella Rivoluzione Francese del 1789: "Ma come? Loro lo hanno fatto e se lo facciamo noi passiamo come degli incivili e sanguinari"? Infine, per i comunisti, il partito unico era un mezzo temporaneo: dicevano che, una volta che tutti gli uomini sarebbero stati veramente uguali, cioè uguali nel guadagnare quanto vale il loro lavoro, senza che un padrone li sfruttase e li derubasse, il partito unico, che serve ad opprimere i borghesi, non sarebbe più servito, poichè, a quel punto, non sarebbero più esistiti gli stessi borghesi, vale a dire uomini che ne impoveriscono e sviliscono di altri, voglio dire quelli a cui danno il salario.
Intanto che in Ungheria infuriavano i combattimenti, la Honvèd di Czibor, Puskás, Lóránt, Budai e commilitoni, si trova ad errare tra il vecchio ed il nuovo continente: tutti ambiscono a giocare contro alcuni dei "mitici magiari". Così, l'allenatore della squadra del Ministero della Difesa, Bianco Guttmann, organizza amichevoli a non finire: i malinconici nomadi ungheresi, in questo modo, riescono a sostentarsi: a migliaia, infatti, tra Austria, Italia, Portogallo, Brasile, Spagna e Belgio, affollano gli stadi per vederli giocare. In Brasile, mister Guttmann smetterà di vagabondare, andando ad allenare il San Paolo; in Spagna i nostri perderanno, allo stadio San Mamete, nell'andata del primo turno di Coppa Campioni, sconfitti per mano del già citato Athletic Bilbao; in Belgio, vista l'impossibilità di tornare a casa, è giocato il ritorno di coppa, in uno stadio, quello intitolato al re Baldovino, nel quale, tra un nebbione sceso sul campo e l'ala sinistra Czibor costretta a giocare in porta, la Honvèd è fermata, nonostante l'affannosa rimonta, sul 3-3. Dopo l'eliminazione, la FIFA, assecondando la federazione calcistica ungherese, squalifica la Honvèd: ora, la formazione di Budapest, l'ossatura della fortissima nazionale, è una squadra illegale: in quel momento, si capisce ancor di più che peregrinare all'infinito non è possibile. Se non si sceglie una vita di questo tipo, s'avrà da trattare, in lunghi giorni piovosi, col tormento e colla pena.
Già era successo che il 30 ottobre, i sovietici, dopo giorni di asprissimi combattimenti, si ritirarono da Budapest: è la << [...] riscossa ungherese contro un lungo e durissimo servaggio >>, ricorda sempre, in modo parziale, La settimana Incom. Ma il 4 di novembre, << [...] le truppe sovietiche >> scatenarono << un attacco contro la capitale nell'ovvio tentativo di rovesciare il legittimo e democratico Governo magiaro >>, comunicò il Primo Ministro ungherese Emerico Nagy, via radio. << Le nostre truppe sono in azione. Il Governo è al suo posto. Annuncio questi fatti al popolo ungherese e all'opinione pubblica del mondo intero >> continuò Nagy, eroe moderno della Nazione. Finisce così la Rivoluzione dei figli d'Ungheria: sono cadute le ultime resistenze: nel sangue, è stroncata la libertà.

Nel mentre, come già detto detto, finisce pure la Squadra d'oro, la formazione di mister Sebes e dei suoi soldati Grosics, Buzánszky, Puskás e compagni, che ha regnato sul mondo con un gioco magnifico, tanto incantevole quanto il Danubio che attraversa Budapest, città monumentale di re e popoli oggi più che mai cristiani, affievolita, ma mai spenta, nella lucente dignità, la stessa degl'immigrati Hunor e Magor, dall'occupazione di altri imperi. L'Ungheria ha sovrastato tutti, o quasi, con un modo di giocare straripante nelle occasione da goal create, ma non ridondante, tanto era corposo, sostanzioso, come l'odore di carne cucinata nei borghi lontani dal mare. Il calcio da loro proposto fu, nella sua essenza, semplice: tanti passaggi nel breve: giocare, come ebbe a dire Puskás, << per il piacere di farlo [...] >>, cercando << il risultato con naturalezza >>, impegnandosi << fino allo spasimo, correndo fino all'ultimo respiro [...] >>. Così è dominato il mondo del calcio, per quattro anni, fino alla disfatta mondiale.
Sono stati undici ragazzi "mitici", quegli undici e gli altri compagni: Giuseppe Tóth, Bianco Kárpáti, Paolo Várhidi, Emerico Kovács, Francesco Szojka, Francesco Machos, Luigi Csordás, Pietro Palotás, Michele Tóth, Alessandro Gellér e Géza Gulyás, il nome del quale è di origine ignota, perciò intraducibile. Tutti nati tra il '21 ed il '32. Certe vole capita che ci si fermi a pensare come delle generazioni riescano a fare delle cose così grandi. E quando ci si ferma a pensar di questo, come si ha modo di cavar fuori quello che si vuol dire? Le parole infatti non bastano: come si fa, del resto, a descrivere la fatica? Il lottare ogni singolo secondo, con il pallone incollato ai piedi, oppure inseguendolo, fino a disfare del tutto sè stessi? Come si fa a raccontare di battaglie epocali, quelle combattute su di un campo di erba verde, dove si muovono uomini e pallone?
A Francesco, in magiaro "Ferenc", Puskás piaceva molto mangiare, tanto da aver giocato, dalla nazionale fino al Real, spesso, con qualche chiletto di troppo; a Madrid, poi, dicono abbia aperto un negozio di alimentari; morì povero, vivendo in una casa di cura, grazie ad un vitalizio del governo ungherese. Alessandro Kocsis, dopo aver smesso di giocare, aprì un ristorante; era malinconico da un anno quando, già contratta la leucemia e diagnosticatogli un cancro allo stomaco, si gettò dalla finestra dell'ospedale, così da non dover combattere ancora.
Sì, spesso si sente di queste grandi storie e ci si chiede come questi uomini abbiano fatto, lo so. Avete idea di cosa sia scrivere una storia più grande di voi? Sì, lo sapete cosa significa. Non te ne accorgi. Lo scopri quando torni a vivere normalmente: le cose finiscono e sei contento lo stesso, ma il pensiero torna a quei giorni passati.
Dicono che nella vita degli uomini si abbia appena appena il tempo di fare cose straordinarie. E visto che cose straordinarie le fecero, quel tempo venne automaticamente meno, gettandoli nel polverone. Scaraventati lì, non tanto dall'altalenante fortuna, dal terribile caso che tanto ci affanna, quel caso che, per intenderci, scatena << [...] una tempesta sull'isola >> proprio mentre << C'erano tre navi che lasciavano la baia >> e che quindi obbliga << [...] trentatrè anime in acqua >>, testimoni del loro giudizio. Ma tirati giù nello sconfortante polverone, per l'appunto, da quel caso, sì dettato da un governo, quindi imprevedibile, poichè imprevedibili sono le cose umane, ma stabilito da una precisa scelta, la quale, in quel preciso momento, ha fermato la confusione di mille altre possibilità, e che ne ha imposta una, con tutta la sua forza, decretando al posto d'altri su come si debba vivere. Insomma, questo è un governo, no? Quello che, in varie misure, decide dell'esistenza altrui.

Non poterono più giocare insieme i membri della "Squadra d'oro". C'è chi dopo allenò, chi fece altri lavori. Coloro che fecero parte della diaspora poterono tornare in patria solo nel '93. Alcuni morirono giovani, per malattia. Giulio Lóránt, il prestante terzino sinistro, è stato fatalmente colto da un infarto mentre allenava in una gara del campionato greco.

Eugenio Buzánszky giocò tredici anni nel Dorogi, e, dopo, lo allenò per altri tredici anni. Oggi, lo stadio di Dorog è a lui intitolato. Giulio Grosics, il portiere, è invece morto il 13 giugno del 2014: il penultimo ad andarsene di quegli undici che si giocarono la finale della Coppa del Mondo.

È da due anni che si può dire calato l'ultimo sipario su questa storia.










Di Carlo Luca

domenica 24 luglio 2016

Possibili vie di fuga

Esiste un modo per scappare da questa città, per fuggire da Palermo. Non è un modo immateriale, od almeno: lo può essere se lo si carica di certi significati. Probabilmente, usando il verbo "scappare" ho già caricato di significati questo modo di uscire dalla città. Modo di uscire che ripeto essere fisico: insomma: è la Palermo-Sciacca, lo scorrimento veloce. Sì, quest'incipit si chiude così: se Mondello, dato che è l'ultima delle spiaggie palermitane rimaste, è affollata fino allo stipamento, se la stessa spiaggia è in pratica tutta recintata, proprietà d'altri, così come di fatto sono proprietà altrui l'Addaura e Capo Gallo, e se mentre riuscite a staccare da un lavoro che magari non vi piace pensate che questa situazione non vi va giù, e se questo lavoro, insieme col caldo di una grande città, col traffico irrazionale, colle corse che vi sballottano da lato a lato, vi costringe all'asfissia, se pure Monte Pellegrino è ferito dalle fiamme, potete raccogliere tutto quello di cui avete bisogno e scappare, lanciandovi in un'altra corsa, verso l'entroterra, attraverso lo scorrimento veloce, una strada che solo a vederla fa spavento.
Pensata ed iniziata a costruire negli anni '70, ma completata nel 1997, la Palermo-Sciacca ha la forma di una sinuosa criminale; una sinuosità eccitante per un pilota, ma paurosa per un pendolare.Ogni anno, sullo scorrimento veloce, perde la vita più di qualcuno. Nel 2013, dodici furono i morti, probabilmente il record. È vero, molte di queste vittime avevano usato comportamenti poco prudenti; ma è altrettanto vero che la Palermo-Sciacca è ricca, tra le altre cose, di punti in cui l’asfalto è dissestato e di depressioni, che diventano pericolose pozze d’acqua nei giorni piovosi. Questi ed altri problemi hanno portato ad alcune interrogazioni parlamentari, l'ultima di queste all'ARS, nonostante sia l'ANAS, azienda con unico socio il Ministero dell'Economia e delle Finanze di Roma, a gestire questa strada. Insomma: la competenza a legiferare sulla e gestire la Palermo-Sciacca pare spetti allo Stato. L'impressione di molti, comunque, è che questo scorrimento veloce sia stato progettato in un modo tale da rendere spesso fatali le disattenzioni degli automobilisti, nel senso che mette in difficoltà gli stessi: accentua le negligenze, e quindi la limitatezza, connaturate all'agire dell'essere umano, cioè complica senza motivo un'azione che richiede molta attenzione, vale a dire il guidare lanciati ad alte velocità.
Da Palermo fino a San Giuseppe Jato e San Cipirrello la strada gestita da ANAS consiste, un po' più nello specifico, in un susseguirsi di ponti piuttosto lunghi (alcuni quasi 2 km) ed alquanto alti: potete ben immaginare che una strada sopraelevata costi molte volte di più rispetto ad una strada che sopraelevata non è; "messinese" era il termine che parte del Parlamento di Roma utilizzava, scandalizzata, per descrivere la Palermo-Sciacca, poichè già gli stessi parlamentari avevano avuto a che fare con la Palermo-Messina, autostrada che non tocca mai terra e che perciò vanta costi di costruzione lievitati di sei volte; dopo San Cipirrello sorge il problema (che negli anni '80 faceva tenere aperta la parte di strada allora costruita solo a partire dalla primavera) di una serie di frane che restringe la strada in vari punti: un'idea di viabilità che crolla su sè stessa; o meglio: un modo di concepire la viabilità che non è sopportato da una Natura che, con la sua razionalità, crolla su una strada senza senso, inutilmente pericolosa. Per non parlar del fatto che la Palermo-Sciacca passa continuamente da due a tre corsie, i sensi di marcia si dilatano e si restringono come una cassa toracica dal respiro nervoso.
È una strada che soltanto a vederla fa spavento perchè, se si ha occasione di far cadere il proprio sguardo, da Altofonte o Monreale, sulla Conca d'Oro, non si potrà non notare un serpentone dalle curve da capogiro. Curve, a parere di molti, senza alcuna utilità, imposte dal fatto che, com'è risaputo, le strade in Sicilia non possono insistere sulle terre mafiose, inespropriabili. A proposito poi di rapporti economici, negli anni della costruzione dello scorrimento veloce, a San Giuseppe Jato, storico feudo mafioso che proprio in quegli anni era governato da un sindaco lontano parente di Giovanni Brusca, il numero di imprese edili che costruivano una strada irragionevole e pericolosa si calcolava in una ogni dieci abitanti: tanta ricchezza in pochi anni e passati quegl'anni spopolamento ed il paese comunque in sofferenza: un'idea di sviluppo quella che ha sostenuto lo scorrimento veloce, secondo molti, insostenibile ed effimera.
In ultimo c'è da dire che l'anno scorso, proprio di fronte i paesi della valle dello Jato, vale a dire San Giuseppe e San Cipirrello, la strada è stata chiusa, perchè considerati pericolanti i piloni che la sorreggono. Rientrato l'allarme, resta un circuito da far girar la testa, che passa tra i monti e sopra i valloni ed attraverso la Portella della paglia, luogo incantevole (di meno da quando c'è lo scorrimento veloce) che in inverno si ghiaccia e ghiaccia la strada: questa portella collega la valle dello Jato colla Conca d'oro e vide cadere in una trappola mortale allestita dal bandito Giuliano cinque poliziotti: chissà che, se fosse rimasto in vita e latitante, un vecchio Salvatore Giuliano non avesse usato guerriglia per bloccare la, scommetto per lui, ingiusta costruzione di una strada di questo tipo. Tuttavia, al di là della fantasia, è opportuno render conto di una delle caratteristiche di questa strada, riprendendo ciò che dicevo: cioè che un anno fa fu chiuso il tratto di fronte ai paesi dello Jato. Invero, una delle caratteristiche di questo percorso è proprio il fatto che non passa da nessuno paese, non ne attraversa nemmeno uno, scelta probabilmente presa con l'obiettivo di affossare i vari paesi e costringere più persone ad affollare Agrigento, Trapani e Palermo.


Già, la bella Palermo: scommetto che quello che cantavano i Mattafix in "Big city life", molti lo vedono riprodotto nel capoluogo siciliano: << [...] una prigione metropolitana, nata dalla visione dell'uomo, programmata per >> mantenerci << discretamente nell'angolo >>, nella quale << Noi spingiamo solo in avanti: è divertente quanto impegno ci mettiamo >>. Ecco: per fuggire dalla vita che si fa nella grande città e cercare qualcosa di diverso, fate occhio se scegliete la Palermo-Sciacca. 

Di Carlo Luca

domenica 1 maggio 2016

Da "La storia di Turi Giuliano" di Cicciu Busacca


<< Vinni lu primu maggiu o' me Signuri / jornu ca nun si pò dimenticari / lu jornu ca lassau tantu duluri / lu jornu ca lassau lacrimi amari / pirchì du jornu pi comu sapiti / ci fonu morti e ci fonu firiti. Quel giorno ci sono stati deci morti e vinti firiti. A Purtella Ginestra, si ci iti, truvati ancora petre insaguinati. E deci nome di morti liggiti / nta na grussa petra su stampati / 'ntanto si dissi ca fu Giuliano / ca seminau li morti in nda du chianu >>.
Alberto Mannino

domenica 6 dicembre 2015

L'Arca di Noè per navigare nel disastro

Faraone porta con se ogni specie di animale politico, la nuova speranza sono "I Coraggiosi"

Ieri si è aperta l'iniziativa Italia Coraggio! promossa dal Segretario del Partito Democratico Matteo Renzi per incontrare il maggior numero di persone possibili e spiegare l'operato del Governo. Oltre 2 mila banchetti in tutta Italia hanno inaugurato l'operazione che terrà impegnati tanti militanti fino alla sera della giornata di oggi 6 Dicembre. Anche a Palermo, in via P. di Belmonte si è dato vita all'incontro, con la partecipazione di militanti, dirigenti provinciali e alcuni regionali tra cui la nuova entrata Anselmo subito divenuta capogruppo all'ars. Ovviamente non poteva mancare il sergente Garcia del Governo Renzi in Sicilia, Davide Faraone. Con sicurezza, entusiasmo e arroganza ha pronunciato davanti ai giornalisti il suo cambiamento, la sua idea di rottamazione:"Gli iettatori si rassegnino. Rappresentiamo il 40 per cento dei cittadini e accogliamo anche chi proviene da altre esperienze. E' un segnale di novità.” Il sottosegretario all'istruzione Davide Faraone si esprime così riguardo alle polemiche relative ai numerosi innesti di personale politico proveniente dal centro e dal centrodestra, sintomo di un partito nuovo, forte, maggioritario; un partito che possa essere anche la casa dei moderati. A livello di principio tutto ciò non sarebbe nulla di così strano, prima l'Ulivo e poi il Pd sono organismi nati per creare unità tra tutte le forze del centro-sinistra e aprire quindi al popolo moderato. Ma voleva dire anche cambiare radicalmente il paese, sia nei modi che nei programmi in nome del progressismo e del riformismo del centro-sinistra. Anche Matteo Renzi ha compiuto la sua scalata con parole d'ordine come rottamazione, cambiamento contro conservatorismo. Ma lo spettacolo al quale assistiamo oggi in Sicilia è cosa ben diversa, il Pd di Faraone è cambiato si; è la Conservazione. Non si può giustificare la grande transumanza di volti politici da destra al pd come elemento di novità positivo ed elemento cardine del partito al 40 %. Il Pd alle europee ha preso questa percentuale perchè ha saputo raccogliere le istanze della popolazione, ha dimostrato di essere il cambiamento di vecchie pratiche stantie e altrettanti volti ormai usurati, ha saputo essere la speranza che questo Paese aveva dimenticato e lo ha fatto con i suoi valori e con i suoi nuovi volti nati e cresciuti nel Pd. Niente di tutto questo appartiene all'idea che qui invece Faraone da al cambiamento e alla rottamazione. La regione continua ad essere bloccata per interessi di parte delle innumerevoli correnti della maggioranza, perde giorno dopo giorno fondi europei, non riesce a scrivere più di 20 leggi l'anno (spesso molte non superano le 5 pagine), non ha idea di cosa fare per migliorare la Sicilia. La soluzione a questo non può essere costruire una grande arca di Noè in cui far entrare ogni genere di politico presente all'ars. Non era questo il Pd all'origine e non era questo nemmeno il Pd di Matteo Renzi alle europee. Dove sono i valori e i programmi, dov'è il cambiamento che tanti siciliani aspettano, dov'è la comunità che ha costruito il sogno del Pd. Ieri si è potuto assistere solo alla passerella del cambiamento per tirare a campare, per salvaguardare le posizioni di potere, per vincere a tutti i costi senza pensare al motivo per cui si merita di governare. Questa è la conservazione e in Sicilia questo rappresenta il Pd.

Nota personale

Nella foto in alto sono presente anch'io (il ragazzo biondo sulla sinistra visivamente a disagio). Ero lì per l'iniziativa Italia Coraggio! perché credo ancora che stare in una comunità, stare in un partito voglia dire mobilitarsi, sudare, faticare per l'ideale in cui si crede, lottando ogni giorno per cambiare le cose seguendo le proprie idee. Ero lì per incontrare i cittadini, ero lì come tanti altri in tutta Italia. Non ero lì per essere invischiato nella passerella del nuovo corso dei finti renziani di comodo. Mio malgrado mi vedete lì ma mi dissocio dalla gestione regionale di questo pd e dalle manovre di Faraone.

E' nata una stella

Da queste mie parole sembra che non ci sia alcuna strada alternativa da seguire, sembra ci si debba rassegnare allo stato di cose attuale, ma non è così. Esiste una speranza, esiste chi dice basta a questa farsa e vuole cambiare tutto. Sono "I Coraggiosi", movimento nato dall'azione senza precedenti del'ex onorevole Ferrandelli, ovvero le dimissioni. Atto straordinario nella nostra terra del gattopardo. Da questo primo atto ne sono arrivati tanti altri, parlo della gente che non vuole più nascondere la testa sotto la sabbia, che non si permette l'immobilismo accettando il rimorso ma si mobilità per essere quel cambiamento che la Sicilia sta aspettando. In pochi mesi questa iniziativa ha riacceso la speranza in giro per la Sicilia, aggregando persone spesso diverse ma con un obbiettivo comune, riportare la buona politica nella propria terra. La forza di tutto ciò sono le persone, i comitati nati spontaneamente sul territorio e che abbracciano la nostra terra tutta. La forza e l'integrità di queste persone, è l'esempio di cosa voglia dire essere il cambiamento, essere il centro-sinistra, essere la buona politica a contatto con le persone, il territorio, costruendo qualcosa dal basso e non seguendo gli ordini calati dall'alto. Oggi un'alternativa esiste, è ancora giovane e inesperta ma è pronta a migliorarsi per essere all'altezza dei sogni e bisogni dei siciliani, andando incontro al futuro con la conoscenza come strumento e la convinzione come forza trainante. Questo è il vero cambiamento, chi crede nella politica con lo spirito di chi osa e non del codardo che sale sul carro del vincitore, con l'entusiasmo di chi ci prova e non con l'apatia dell'immobilismo di sopravvivenza, con la responsabilità di chi ci crede e non l'irresponsabilità di chi crede solo ai pacchetti di voti. Questi sono I Coraggiosi che cambieranno il Partito Democratico siciliano.

Giorgio Mineo


martedì 1 settembre 2015

I tanti modi di essere laburisti

Dalla Corbyn-mania agli incubi di Blair

Due mondi ormai distanti bisognosi di un collegamento

Da mesi un personaggio si rigira nel letto, non riesce a prender sonno, paure e incubi glielo impediscono e lo costringono all'insonnia. Almeno questo è quello che immaginiamo riguardo alle condizioni del tre volte Primo Ministro britannico Tony Blair nelle ultime settimane. Ma quale potrebbe essere la ragione di un tale malessere, o sopratutto chi è a procurarglielo? L'origine della sua insonnia è dovuta al suo anziano compagno di partito Jeremy Corbyn, candidatosi alle primarie per la leadership del partito e in testa ai sondaggi. La prospettiva che questo anziano membro della politica britannica vesta concretamente i panni di segretario laburista, hanno spinto l'ex premier a innumerevoli interventi pubblici e ha infiammato la sua penna nella stesura di lunghe lettere di critica.

La distanza tra le parti

Tony Blair afferma che la vittoria di Corbyn porterebbe ad un ulteriore disastro, dopo la debacle elettorale di Ed Miliband nei mesi scorsi. Corbyn sarebbe un revival politico, con un programma elettorale identico a quello laburista negli anni ottanta con il quale perdeva ad ogni elezione. No austerity, nazionalizzazione di energia e ferrovie, uscita unilaterale dalla Nato, euroscetticismo. Elementi insensati secondo Blair, che definisce il tutto come il paese delle meraviglie. Dall'altra sponda, i sostenitori di Corbyn godono nel sentire le sfuriate del loro ex Primo Ministro. Le prendono come la dimostrazione di essere dalla parte giusta, la vera sinistra che si appresta a ripulire il paese dall'ingiustizia e dalla povertà. Questo perché per una grossa fetta dei cittadini britannici Tony Blair è stato un sogno tradito, un illusione, la rappresentazione della sinistra svendutasi al mercato per ottenere potere e denaro, voltando le spalle ai deboli. Stessa avversione, ma in termini differenti, è nel bagaglio dei sostenitori di Blair e dei suoi successori morali come la candidata alle primarie Liz Kendall. Queste persone vedono Corbyn e il suo seguito come degli stupidi, ingabbiati nell'ideologia e destinati alla sconfitta. Si polarizzano così due schieramenti contrapposti, destinati a combattersi fino all'estinzione del più debole. In questo campo di battaglia la ragione scompare sotto i colpi delle due parti, e il dibattito si inasprisce senza generare concrete soluzioni e alimentando l'incomunicabilità. Si rende quindi necessario, ai fini di un più sano confronto e di una migliore programmazione politica, costruire un ponte tra questi due mondi ormai lontani, attraverso un passo indietro delle parti in favore di una migliore comprensione del fenomeno al quale si contrappongono.

Ricollegare mente e cuore 

Corbyn rappresenta quella risposta al dilagare delle disuguaglianze e della povertà che attacca le contraddizioni e i limiti della società in nome della giustizia sociale. Ma allo stesso tempo una proposta è latente o almeno incompleta. Nazionalizzare energia e trasporti sembra una politica di sinistra (quella vera dicono) perché guarda al bene comune, ai cittadini e combatte il profitto privato. Ma per farlo quanto denaro occorrerebbe? Migliorerebbe il servizio? Abbasserebbe i prezzi? Risposte a tali quesiti non sono arrivate da Corbyn. Se non si dimostrerà che tale intervento sia un miglioramento delle condizioni dei cittadini allora non ha senso perpetrarla, a meno che non si voglia seguire un illusione o una una posizione ideologica. Quindi Corbyn sarebbe più a sinistra anche se i prezzi aumentassero e i servizi peggiorassero andando a discapito della gente comune; per non parlare dell'esplosione del debito pubblico necessario a finanziare l'impresa. Il punto quindi non è che con tali posizioni si perdono le elezioni, bisogna invece chiedersi: queste politiche sono realizzabili e migliorerebbero il Paese? Allo stesso modo sotto la bandiera di Blair vi sono innumerevoli problemi. Vero è che non si può e non si deve buttare via l'intera eredità di quella lunga stagione al Governo (1997-2010). Vero è che per cambiare le cose bisogna governare e quindi vincere le elezioni, ma non si può esser ciechi di fronte a quell'urlo che arriva con forza dalla società, a quel sentimento che anima i sostenitori di Corbyn. Come si affronta la crescita delle disuguaglianze, come si affronta il potere crescente della finanza e delle multinazionali, come si migliorano le condizioni dei lavoratori in un mondo diverso dal passato. E' necessario, per il bene del partito laburista e per il Regno Unito intero, che i due schieramenti si parlino, si confrontino, imparino l'uno dall'altro. Servono insieme ragione e sentimento, un piano concreto per lo sviluppo e uno per renderlo equo lottando contro l'ingiustizia della società. Una visione di sinistra nel mondo che cambia e che risponda alle sfide del nostro secolo. Solo così il Labour tornerà a vincere e a trasformare in meglio la società.

Giorgio Mineo 

mercoledì 13 maggio 2015

La caduta di "Ed il Rosso"

Confusione e incertezza, il fallimento del "radical soft" della sinistra 


Un Ed Miliband triste e sconfortato annuncia le sue dimissioni da segretario laburista
Il 7 Maggio il popolo del Regno Unito è stato chiamato alle urne per rinnovare il Parlamento e scegliere la sua guida politica. In quel giorno si è consumata la disfatta del partito laburista e del suo leader Ed Miliband, consegnando il Paese totalmente nelle mani di Cameron e dei conservatori. Se si guarda ai sondaggi svolti fino al momento prima del voto è difficile comprendere il reale risultato; un testa a testa laburisti e tory che non c'è mai stato e i liberal democratici spazzati via nel voto reale. Cosa è accaduto? I soliti sondaggi errati all'italiana? Gli inglesi hanno mentito? Per trovare la verità non possiamo dare risposte così superficiali, dobbiamo invece addentrarci nel contesto britannico analizzando la comunità e la cultura, il tessuto sociale insieme alle campagne elettorali, i messaggi e le personalità dei leader.

Cameron il razionale

 La prima risposta possibile è che David Cameron abbia convinto i cittadini con una grande campagna elettorale e con un programma di speranza e fiducia per il futuro. Beh non è questo ciò che è accaduto. Il Premier Cameron è stato molto assente durante la campagna elettorale per via dei molteplici impegni istituzionali europei, come i vertici sull'immigrazione; inoltre, anche nei momenti in cui macinava elettori sul territorio, il tory è apparso spento, stanco e privo di entusiasmo, come segnalato da tutti i giornali britannici sia di destra che di sinistra. Cameron ha vinto sulla paura e sull'inadeguatezza dei programmi e dei leader avversari. I conservatori hanno proposto agli elettori un nuovo programma di tagli, soprattutto nel sistema sanitario, un aumento delle tasse universitarie e un'inasprimento delle disuguaglianze. D'altro canto oggi la Gran Bretagna è in crescita economica, la disoccupazione è solo al 5,5% ed in continuo calo; un paese stabile che non retrocede di fronte alle potenze concorrenti e che rimane capitale del business finanziario. Perché gli elettori, soprattutto la classe media, hanno scelto un programma che colpisce i propri interessi, distruggendo il welfare? Il piano economico conservatore è apparso agli elettori come l'unica strada possibile, difficile e lastricata di sacrifici ma razionalmente era la scelta giusta. I programma antagonisti, soprattutto quello laburista, ampliavano la spesa sociale e il welfare ma non sono parsi chiari ed affidabili, aumentando la paura di veder andare in fumo i sacrifici del passato per rimettere in moto l'economia.

La confusione della sinistra

Riduzione delle tasse universitarie, finanziamenti miliardari al sistema sanitario nazionale (NHS), aumento del salario minimo, congelamento delle bollette, borse di studio per studenti meritevoli, asili nido per giovani coppie lavoratrici. Questi sono solo alcuni dei punti del meraviglioso manifesto laburista 2015, come è stato possibile per gli elettori preferire i tory ai solidali laburisti? Stavolta la risposta è semplice, il programma non è credibile. Sempre nel manifesto si legge, in premessa, che tutte le misure non saranno finanziate aumentando il debito pubblico ma anzi si prevede un graduale livellamento del deficit, come da previsione quinquennale dei conservatori. Non è stato perciò chiaro agli elettori dove il Labour aveva intenzione di trovare i fondi necessari per mantenere le promesse; si descrivevano nuove tasse sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie ma si era ben lontani dal coprire i reali costi. In questo modo i laburisti hanno lasciato i cittadini nel caos, insinuando più dubbi che prospettive, confusione al posti di decisioni chiare e precise. Insieme al piano economico fallimentare, il labour  paga le gaffe e i duri attacchi mediatici subiti dal suo leader Ed Miliband. Si ricorderà come episodio più significativo la foto del Sun in cui Miliband addenta in modo goffo e con molteplici smorfie un panino. Apice del discredito mediatico del povero candidato rosso, la foto del morso rende l'idea di come i media possano abbattere la credibilità di un uomo, relegandolo ad un fenomeno da deridere, cancellando in partenza l'idea che proprio quella persona possa guidare un Paese.  
Soprannominato dai media britannici l'Obama inglese, Chuka Umunna si candida a guidare il partito

L'opportunità di ripartire

La sconfitta è dura e lascia un' amara tristezza, si guarda indietro per comprendere gli errori e immaginare un risultato diverso. Ma nella sconfitta si nasconde anche un messaggio di speranza, se si ha il coraggio di rimettersi in piedi e di guardare avanti allora il cammino sarà ancora lungo. Questo è ciò che deve fare il partito laburista, riflettere sugli errori commessi e al contempo pensare al futuro, scegliendo una direzione da seguire, una visione chiara da proporre ai cittadini. Bisogna ripensare alle tre stagioni di governo guidate dal New Labour, è stato un errore eclissare 13 anni di governo senza rivendicare ciò che di buono e giusto si è fatto. E' vero, il New Labour su certi aspetti ha fallito, non ha limato le disuguaglianze e ha sparso i germi per la crisi finanziaria ma ha anche portato la pace in Irlanda, introdotto il salario minimo e i matrimoni gay, riformato il welfare e creato posti di lavoro. I laburisti non devono avere paura di quella stagione, non devono vergognarsi del loro recente passato seguendo gli attacchi dei nazionalisti scozzesi o dei populisti dell'Ukip; bisogna rivendicare ciò che di buono si è fatto ammettendo anche gli errori, così da poter rivolgere lo sguardo al domani senza dimenticare ciò che è stato. Il labour dovrà dare nuove risposte sul welfare, riformandolo e migliorandolo senza fare false promesse ma scongiurando la distruzione che si accingono a compiere i conservatori. Dovrà creare le opportunità per i meritevoli e per chi è in difficoltà, solidarietà e sviluppo per una società migliore e giusta, stare dalla parte dei lavoratori ma anche dalla parte di chi crea lavoro, dell'economia reale e non solo della city finanziaria. La sinistra non dovrà cedere al nazionalismo, per riprendere la Scozia (storica roccaforte rossa ora in mano ai secessionisti) non bisogna seguire i bassi istinti e le false soluzioni dei partiti nazionalisti o xenofobi, bisogna invece affrontare il tema con un'idea da contrapporre, l'idea che la storia futura la si scrive insieme verso il progresso e la giustizia sociale, prospettando un futuro nell'Unione Europea e non da raminghi solitari. Queste le sfide che si parano davanti alla sinistra britannica, a loro il compito di scrivere il domani. Intanto è già iniziata la corsa alla leadership; fra tutti spicca il giovane trentasettenne Chuka Umunna, il quale ha da poco ufficializzato la sua candidatura. Chiamato da molti l'Obama inglese, blairiano, ministro ombra delle attività produttive, grande oratore ben visto anche dall'ala sinistra e sindacale del partito, potrebbe essere lui la nuova guida dei laburisti.

Giorgio Mineo

mercoledì 8 aprile 2015

Il bivio del Regno Unito

Miliband vs Cameron, lo spettro dell'Ukip e il ritorno di Blair

Da sinistra: Nick Clegg/Lib-Dem, Nigel Farage/Ukip, Ed Miliband/Labour
Il 7 Maggio il popolo del Regno Unito sarà chiamato alle urne per scegliere il suo nuovo Primo Ministro e il partito che guiderà la Nazione verso il futuro. Questa data già si presenta storica per via dell'originalità del momento politico britannico, finora inedito. Infatti il classico bipolarismo inglese (già messo alle strette nel 2010 con la formazione del governo ora uscente a coalizione Conservatori/Lib-Dem) è in crisi per via dell'avanzare della formazione nazionalista e indipendentista guidata da Nigel Farage. Ma non solo questo è l'elemento peculiare delle prossime elezioni capace di attrarre l'attenzione. Il 7 Maggio i cittadini britannici saranno chiamati a compiere una scelta non solo verso la politica interna ma soprattutto verso il posto della Gran Bretagna nel mondo. Iniziamo quindi ad addentrarci nel clima elettorale britannico ad un mese dalle elezioni. 

Farage/Ukip

E' la grande novità delle elezioni, l'Ukip guidato da Nigel Farage è pronto a mettere in discussione il secolare bipolarismo britannico. Sarà davvero possibile? Se si analizza il sistema elettorale inglese formato da collegi uninominali maggioritari sembra chiaro che la formazione di Farage non può aspirare al governo. Infatti l'Ukip è una formazione ancora giovane e priva di forti candidati sul territorio, quindi la conquista dei seggi necessari si fa più difficoltosa nonostante un forte consenso in percentuale. Il programma cavalca l'euro-scetticismo e la lotta all'immigrazione con forti tratti xenofobi. Punto peculiare è l'uscita dall'UE, la riconquista della sovranità economica e giuridica, la riduzione della pressione fiscale, programmi di apprendistato per i giovani, tagli a spese considerate "inutili" come i dipartimenti di energia, cultura e sport. L'Ukip destabilizzerà senz'altro il quadro politico ma sembra impossibile che possa uscire vincitrice il 7 Maggio. 

Clegg/Lib-Dem

Il giovane leader liberal-democratico alla sua prima tornata elettorale nel 2010 era riuscito a ottenere 57 seggi su 650 e a chiudere l'accordo per la creazione del governo Cameron, a guida conservatrice e liberal-democratica. Clegg diventa così Vice-Primo Ministro portando dopo 90 anni i Lib-Dem al governo. La sfida che si pone di fronte ai Lib-Dem oggi è quella di non essere di nuovo eclissati dal bipolarismo, trovando uno spazio proprio e diverso. Essi si presentano all'elettorato come il giusto equilibrio: responsabili ma non cinici come i conservatori, progressisti ma non buonisti e scellerati come i laburisti. Il programma prevede la riduzione delle tasse per il ceto medio, impedire l'aumento di spesa e del debito pubblico, agevolazioni alle piccole e medie imprese, tagli a forze dell'ordine ed esercito in favore del welfare.

Cameron/Conservative

Il Premier uscente David Cameron ha avuto l'arduo compito di guidare il suo paese negli anni della crisi. Il periodo peggiore, allo scoppio nel  2008, fu affrontato dal laburista Gordon Brown, il quale affrontò la situazione con un forte sostegno all'economia da parte dello Stato. Il governo Cameron è rimasto sulla scia, mantenendo un deficit al di sopra del 10%, così la Gran Bretagna è uscita dalla recessione ed ha sostenuto l'occupazione per poi tornare fino ad oggi a ridurre il deficit. La strada è stata però segnata da forti tagli e riforme che hanno ridotto la quantità e la qualità dei servizi e aumentato la pressione fiscale sui singoli cittadini, agevolando invece le grandi aziende e l'attrazione degli investimenti stranieri con una tassazione favorevole. Peculiari sono stati i tagli all'NHS, il servizio sanitario nazionale, arrivati fino a 20 miliardi, oltre ad una radicale riforma che lascia la gestione locale del servizio sanitario ad aziende private cofinanziate dallo stato. L'attacco al welfare ha causato un forte colpo alla leadership di Cameron, il quale ha visto radicalmente calare il suo consenso elettorale. Inoltre le altalenanti e confuse posizioni sull'Europa non hanno aiutato; ora Cameron è alla rincorsa dell'elettorato di estrema destra in fuga verso l'Ukip, sostenendo posizioni euro-scettiche e paventando un referendum sulla permanenza nell'Unione Europea tra il 2016 e il 2017. Queste mosse lasciano intravedere un leader confuso e schiavo della paura per la sconfitta, per la perdita del consenso, in affanno e senza uno schema chiaro per il futuro, alla disperata rincorsa dell'Ukip a discapito dei moderati. Un programma guidato dalla paura di solito non è premiato dall'elettorato. I punti centrali dei Conservatori sono: la riduzione della spesa pubblica e del debito pubblico (passato dal 48% al 91% tra il 2007 e il 2013), mantenere una bassa tassazione sulle grandi imprese per attrarre investimenti esteri, forte controllo dell'immigrazione, referendum sulla permanenza in UE.
David Cameron, Premier uscente e Leader dei Conservatori

Miliband/Labour

Il perno centrale attorno al quale ruota l'intera campagna laburista è il servizio sanitario nazionale. Il leader dell'opposizione Ed Miliband ha concentrato il programma sui punti deboli del governo Cameron, in primis i tagli alla sanità. I Laburisti vogliono riportare il sistema al regime passato insieme ad una nuova riforma che migliori il servizio e che lo renda accessibile a tutti, a discapito dei privati rafforzati da Cameron con partecipazioni pubbliche. La battaglia per la giustizia sociale rimane fondamentale per il Labour: il programma prevede di aumentare le tasse per le fasce più agiate della popolazione, tassare i profitti conseguiti dalle multinazionali all'estero, redistribuire la ricchezza, bloccare l'aumento della bolletta energetica, investire in innovazione scientifica e istruzione con finanziamenti pubblici e agevolazioni fiscali per studenti e start-up, proteggere e migliorare il welfare. Ed Miliband è sempre stato dipinto dalla stampa come un'incapace e irresponsabile per via di sue molte gaffe (è stato soprannominato Mr. Been) e del suo scarso carisma. Ora però ha la possibilità di vincere e diventare Primo Ministro. Per farlo ha sfoderato ogni arma possibile a disposizione del suo partito con raccolte fondi, campagna a tappeto sul territorio e sul web, e la riesumazione del tre volte Premier Tony Blair. Il Labour dovrà però rispondere agli attacchi dei conservatori e liberal-democratici che accusano la sinistra di essere irresponsabile, paventando aumenti di spesa intollerabili che causeranno il crollo dell'economia. Oggi come in passato la vittoria del Labour dipende dall'immagine di responsabilità e lungimiranza economica che saprà mostrare, garantendo servizi migliori e combattendo le disuguaglianze ma con punti concreti e raggiungibili. Come da slogan <<A better plan. A better future>>.

Tony Blair rises 

Tony Blair è tornato; obbiettivo far vincere il suo partito (da lui guidato 3 volte consecutive alla vittoria) aiutando il candidato Ed Miliband. Dai Laburisti questo ritorno è visto con sospetto, una parte crede che tale ridiscesa comprometta la vittoria per via dell'aria negativa che ruota intorno al'ex Premier Blair. Il fondatore del New Labour non gode più di forte credibilità, schiacciato dagli eventi in Iraq, dal gossip e dai contatti con dittatori medio-orientali. Inoltre Ed Miliband vinse la battaglia congressuale proprio distruggendo il New Labour di Blair, e quest'ultimo non ha mai nascosto la sua lontananza dalle politiche del primo. Ora però bisogna rimanere uniti per la vittoria e questo Blair lo sa bene. Il modesto parere di colui che qui vi scrive è che il ritorno di Tony Blair si rivelerà vincente per il Labour. Il tre volte Primo Ministro rimane un oratore eccellente, capace di emozionare come pochi. Possiede ancora un'intelligenza politica senza pari e sarà in grado ancora una volta di attrarre l'elettorato, soprattutto quello moderato scontento dei conservatori e liberal-democratici. A riprova di ciò ricordiamo il comizio tenutosi ieri a Sedgefield (il collegio elettorale dell'ex Premier) in cui Tony Blair ha rimesso prepotentemente nel dibattito elettorale l'Europa non come problema ma come opportunità e speranza. Un richiamo ai valori comuni del continente, uno sguardo al futuro e al ruolo della Gran Bretagna nel mondo, sfide da cui non bisogna fuggire come, afferma Blair, sta facendo Cameron. Ultima stoccata al Premier uscente, definito come succube della paura e dell'estrema destra fino al punto di far precipitare la Nazione nel baratro con il referendum sull'UE, ribaltando così l'accusa rivolta ai laburisti dai conservatori di portare la Gran Bretagna nel caos.


Giorgio Mineo





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